AL JAZEERA REGALA I SUOI VIDEO DI GAZA

Al Jazeera Creative Commons Repository



Video, decine di video sulla guerra nella Striscia di Gaza. Nel web, a disposizione di chiunque, per qualsiasi utilizzo, anche commerciale. Purché sia chiara la fonte: la televisione satellitare araba Al Jazeera.


L’emittente da pochi giorni ha deciso di mettere sul suo sito internet i video sugli eventi di Gaza: è il Creative Commons Repository, un archivio di servizi liberamente utilizzabili e modificabili dagli utenti e anche della concorrenza. Una mossa mai tentata da nessun grande network. O quasi.


“I servizi prodotti dai corrispondenti [di Al Jazeera] nella Striscia – recita il comunicato dell'emittente di Doha – possono essere scaricati, condivisi, mixati e sottotitolati da bloggers, documentaristi e media di tutto il mondo, anche per uso commerciale”. I video durano dai 10 ai 16 minuti, sono in formato mpeg4 e rappresentano una cronaca giorno per giorno del recente conflitto palestinese: i cronisti si muovono in mezzo a case distrutte, parlano con la gente, osservano i dettagli. Qualche esempio:


• Un’ambulanza arriva a sirene spiegate, i medici sollevano la barella e tirano fuori un uomo con le caviglie coperte di sangue e un osso che esce dal piede.

• Non lontano in quel che resta dell’ospedale un bambino strilla e dimena le gambe. La pelle è ridotta a brandelli e ustionata dall’avambraccio fino al viso.





• Strisce di luce bianca attraversano il cielo sopra i tetti di Gaza. Secondo Humans Right Watch è fosforo bianco.



“In un conflitto dove ai media occidentali – ha scritto Noam Cohen sull' Herald Tribune– è stato impedito di fare servizi a Gaza dalle restrizioni imposte da Israele, Al Jazeera ha goduto di un vantaggio consistente. Era già lì”.


Aggiunge Samir Al Qariouty, opinionista di Al Jazeera in Italia: “Israele ha imposto a tutti i media una barriera, un muro di silenzio. Noi abbiamo risposto con il contributo più importante che una televisione possa dare: immagini per chiunque, senza dover pagare. Nessuno ha mai dato un’immagine gratis. E’una scelta quasi antieconomica”. Uno scopo politico-editoriale dunque, che in questo caso, supera l’immediato interesse economico.


Con innovazioni simili, secondo Cohen, Al Jazeera punta a nuove audience; per esempio negli Stati Uniti dove, anche per ragioni politiche, nella maggior parte del territorio è assente.


Nel mondo pochi altri network di rilevanza mondiale hanno fatto esperimenti simili con licenze in stile Creative Commons.


Negli Stati Uniti Pbs, il network pubblico americano, ha reso disponibili e scaricabili le puntate di Nerd tv, programma settimanale di interviste apprezzato da molti americani.


In Germania Ndr, la tv della Bassa Sassonia con sede ad Amburgo, ha messo sul web alcuni reportage sotto licenze Creative Commons, che però non lasciano la possibilità di riutilizzare o mixare il servizio a scopi commerciali.


Negli ultimi anni l’emittente più all’avanguardia è stata Bbc che nel 2004 aveva inaugurato Creative Archives: era garantito l’accesso gratuito a una parte degli archivi audio e video, ma i termini di utilizzo erano più restrittivi rispetto al repository di Al Jazeera. Il materiale poteva essere scaricato, condiviso, modificato e ripubblicato esclusivamente da residenti in Inghilterra, e non per scopi commerciali (conseguenza dei limiti posti dalla legge all’uso dei materiali finanziati con il canone televisivo). Era un progetto pilota che due anni dopo è stato sospeso e ora si sta valutando se riprenderlo


Chi visita oggi il sito Bbc, può solo condividere il materiale su siti di social networking o inviare l’indirizzo della pagina (“link”) dove si trova il video a un altro utente. Analoga la situazione di altre emittenti.


Cnn. Consente di condividere (“share”) via mail o social network, oppure di inserire nella propria pagina (“embed”) il video, senza modificarlo.

Rai. Un video può solo essere votato o inviato a un amico.

Mediaset. Come la Rai, ma in più lascia spazio al link.

Current tv, La7, Sky. Sono le televisioni che in Italia sfruttano maggiormente le potenzialità della rete: link, embed e share sono garantiti.


Creative Commons è un’organizzazione no-profit creata per “rendere più semplice condividere e utilizzare il lavoro di altri nel rispetto del copyright” suggerendo diversi profili di possibile condivisione: Al Jazeera ha utilizzato la licenza “3.0 Attribuzione” per i video dalla Striscia.


“ ’Attribuzione’ è la più libera delle licenze – spiega Juan Carlos De Martin, responsabile per l’Italia del progetto Creative Commons – perché l’unico dovere per l’utente è di riconoscere la fonte del materiale. Il passo successivo è il pubblico dominio”.


In Italia il sistema di articolazione del diritto di autore proposto da Creative Commons è meno conosciuto rispetto ad altri paesi europei. “Ci vorrebbe una forte volontà politica per seguire l’esempio di Al Jazeera. Se il nostro servizio pubblico mettesse in rete a disposizione di tutti suoi archivi, le scuole di tutta Italia potrebbero vedere i telegiornali di 30 anni fa. E imparare”.

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E-NEWSPAPER, IL GIORNALE DIVENTA DI PLASTICA


La rivoluzione dei giornali inizia nell’ex-Germania dell’est. A Dresda è in produzione l’e-newspaper pieghevole che sarà commercializzato a inizio 2009: un’edicola elettronica tascabile che potrebbe assestare il colpo di grazia al sistema tradizionale dell’informazione.


“Paper or plastic” è il titolo di un video messo online dalla Cnn.


Si apre con la nube di polvere e terriccio sollevata dal crollo di un abete, tagliato alla base da una motosega.


“Quattro miliardi – commenta la voce fuori campo di Fred Pleitgen, cronista della Cnn - è la stima di quanti alberi sono abbattuti ogni anno per creare carta”. Si può guardare il filmato nella homepage di Plastic Logic, azienda specializzata in transistor a polimeri, fondata da un gruppo di scienziati dell’università di Cambridge, Inghilterra.





Plastic Logic in settembre ha aperto uno stabilimento nella capitale della Sassonia, dove sarà lanciato l’e-newspaper, presentato a San Diego due mesi fa.


Il quale, secondo Kenneth A. Bronfin, presidente di Hearst Interactive Media (compagnia che controlla 16 quotidiani americani, tra cui San Francisco Chronicle e The San Antonio Express), “invaderà il mercato americano la prossima primavera. Hearst Interactive ha un forte interesse a partecipare al lancio degli e-newspaper”.


Si tratta di un foglio di plastica formato A4, flessibile e pesante meno di mezzo chilo. Il dispositivo è dotato di memoria per immagazzinare migliaia di pagine di riviste, giornali, libri scaricate dal computer di casa o via Wi-Fi. Il display visualizza caratteri scritti in e-ink (inchiostro elettronico), ed è touch-screen: si passa da una pagina all’altra toccando lo schermo.





In commercio si trova anche il lettore E-reader della Sony o il Kindle realizzato da Amazon.com; ma a differenza dei concorrenti (pensati più come e-book), l’e-newspaper prodotto in Germania ha uno schermo in plastica e non in vetro, grande più del doppio, che lo fa sembrare in tutto una riproduzione di un quotidiano o di un foglio stampato dalla fotocopiatrice. Zero retroilluminazione (lo si può “sfogliare” ovunque, anche al sole), supporto dei formati più usati in ufficio (word, excel, power point, pdf) durata della batteria anche di due settimane.


“Vedevamo il nostro prodotto – ammette Richard Archuleta, numero uno di Plastic Logic – più per la lettura di documenti; ma quello che vogliono tutti, è la possibilità di scaricare e leggere ovunque, in ogni momento della giornata, la mazzetta dei giornali”.


Secondo gli analisti dei media l’e-newspaper cancellerà i quotidiani di carta. In Italia, si dovrà fare i conti con un livello tecnologico diverso dagli Usa.


Per Robert Cauthorn, ex-direttore di StarNet (una delle prime testate online), “un libro stampato avrà sempre senso, perché potrà essere letto più volte. Ma la carta non offre vantaggi per un giornale: bisogna abbattere alberi, trasportarli, trasformarli in carta che viene avvolta nelle bobine, per essere portata negli impianti di stampa. Nelle rotative i giornali vengono stampati, impachettati, caricati su camion e scaricati nei punti vendita. I consumatori li acquistano, li leggono e dopo qualche ora li buttano. Altri camion li vanno a prendere per inviarli, nel migliore dei casi, in un impianto di riciclaggio.


Questo processo è uno sperpero di energia e non più ecosostenibile”. “Il foglio elettronico – spiega Marco Pratellesi, responsabile di Corriere.it – per imporsi dovrà avere un’interfaccia intuitiva, oltre a essere economicamente vantaggioso per produttori e utenti. Ci vorrà tempo, ma siamo di fronte a un modello auspicabile di business: il giornalismo non è stampare le notizie ma produrle”.


“Se l’e-newspaper avrà successo, potremo risparmiare tanto. Al San Francisco Chronicle – racconta Bronfin – stampa e distribuzione rappresentano il 65 per cento delle spese fisse”.


Gli introiti principali di ogni testata vengono dalla pubblicità: nel caso dell’e-newspaper, “gli inserzionisti – svela Eric A. Taub del New York Times – potrebbero fare a gara per accaparrarsi spazio virtuale. Si tratta in fondo di un dispositivo elettronico; esso potrebbe riconoscere chi sta leggendo il giornale e su quali articoli si sta soffermando. I pubblicitari riuscirebbero a capire meglio il loro pubblico, e ad indirizzare le inserzioni ai clienti più probabili”.


Resta da chiedersi quanto i consumatori siano disposti a pagare per il foglio elettronico ed eventuali abbonamenti alle notizie in tempo reale.


“Abbiamo abituato una generazione di lettori – ricorda Taub – a ricevere le informazioni di cui ha bisogno senza spendere nulla, dalle edizioni online dei giornali”.


“I quotidiani – osserva Pratellesi – si salveranno se gli editori investiranno le risorse liberate da questa innovazione per tenere alta la qualità del giornale. Per la quale spenderanno anche i ragazzi della Nintendo Generation, cresciuti tra videogiochi e computer”.


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LA CRISI COLPISCE LA PUBBLICITA'

La crisi non guarda in faccia nessuno, neanche la pubblicità. Secondo le analisi di quotidiani come Milano Finanza, il Sole 24 Ore e Financial Times, la recessione economica costringerà le imprese di tutto il mondo a spendere complessivamente di meno per farsi pubblicità. Risultato: le aziende editoriali dovranno tirare la cinghia.

In Italia, le stime fornite da Nielsen Media Research monitorano le migliaia di euro spese per inserzioni nei media. 

In base ai dati riferiti al periodo gennaio-ottobre 2008, gli investimenti netti pubblicitari sono calati dello 0,8% rispetto agli stessi mesi del 2007. 

Un mese fa Rcs ha annunciato che, a causa della contrazione dei ricavi pubblicitari, a luglio rivedrà il piano triennale. E’un segno del cambiamento in corso nell’editoria; nel dettaglio i dati Nielsen destano preoccupazioni e speranze. 

Nel 2009 probabilmente sarà la carta stampata a soffrire; le testate disporranno di minori introiti per i tagli dello scorso anno nella pubblicità: cento milioni in meno per i quotidiani a pagamento (-4,9% rispetto al 2007), sessanta per i periodici (-5,6%). 

Numeri su cui riflettere, considerando che le risorse di un giornale derivano dalle vendite (da anni in calo continuo), dai “collaterali” – dvd, cd, guide turistiche ecc. – allegati e dalla pubblicità. Luigi Einaudi, che amava definire “il giornale come vendita di notizie e avvisi”, aveva intuito tutto. 

Pochi scossoni invece per la televisione, dove da sempre girano più soldi: qui l’aumento di proventi dalle inserzioni è inferiore a 30 milioni (variazione di 0,7%). Bene la radio, che può contare del 4,4% di investimenti in più. Meglio ancora il web: internet attira flussi di denaro da doppia cifra: l’aumento è del 18,5%. 

Molti analisti pensano che la rete sia la salvezza del sistema editoriale; questo medium, ancora giovane, muove però risorse non paragonabili con tv e stampa.

La flessione del mercato pubblicitario non è un affare solo italiano: secondo il Sole24Ore, negli Stati Uniti colossi come General Motors hanno dimezzato le risorse vincolate nel settore. Le imprese editoriali, al netto degli investimenti pubblicitari, hanno messo in campo strategie diverse per fare i conti con la recessione. 

Anche perchè “il calo delle inserzioni in Nord America e nell’Europa occidentale – si legge in Milano Finanza – sarà compensato dalla continua crescita dei mercati emergenti, come India, Cina e Brasile”. 

In Francia il Presidente Nicolas Sarkozy, ha avviato un progetto per reinventare il servizio pubblico: da lunedì 5 gennaio, nonostante la crisi, zero spot sui canali France1, France2 e France3 (la tv di stato) a partire dalle 20.35 fino alle sei di mattina; la scomparsa totale della pubblicità è fissata per il 2012. Per evitare un dissesto nelle casse dello stato, questa mossa è stata bilanciata giorni dopo in senato con un emendamento, che fissa un canone per i possessori di un cellulare 3G o un computer in grado di ricevere il segnale; la riforma voluta dall’Eliseo, accolta dai giornalisti con scioperi e manifestazioni, ha in ogni caso portata rivoluzionaria. 


new_york times


Al contrario, in Italia nei giorni scorsi si è visto un segnale in contrasto con il crollo negli investimenti pubblicitari: la decisione di imprese, come Enel, Telecom e Sisal, di stanziare fondi per acquistare una banda laterale e una striscia con i colori dell’azienda tra la testata e i titoli in prima pagina del Corriere della Sera

Sempre sul Corriere, Audi qualche settimana fa, ha comprato ben 16 pagine interne per ricoprirle di inserzioni. Segnali positivi ma insufficienti per risollevare la curva degli investimenti.

Resta da capire se le ripercussioni della crisi nel mercato pubblicitario, incideranno sul lavoro dei giornalisti; meno risorse a disposizione potrebbero alterare la fattura del giornale. 

“Gli editori – osserva Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale della stampa – oggi possono parlare in maniera credibile di crisi, che oggettivamente c’è”. Poi la stoccata: “Si tratta comunque di un fenomeno recente. Non giustifica le scelte sbagliate del passato, quando le aziende editoriali facevano utili. Gli editori hanno preferito distribuirli ai propri azionisti piuttosto che migliorare la qualità del prodotto giornalistico”.
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